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Incontrando Michele Di Giacomo è facile comprendere quanto lo sguardo sulle cose e sulle persone sia per lui il mezzo più semplice e naturale per giungere a un dialogo con gli altri e con se stesso.

Sguardi, immagini, ancora immagini, circostanze, accadimenti. Come altro potremmo raccontare il suo lavoro fotografico se non definendolo come un’osservazione incessante del mondo?

In questo fluire continuo dello sguardo, interrotto a tratti dallo scatto delle immagini, quel che più colpisce è che tra il gesto dell’osservazione e la fotografia, Michele non sembra interporre il suo giudizio. Piuttosto si nota un prendere atto delle cose così come sono, a cui egli si approccia con stupore e curiosità – è certo – ma con una registrazione fotografica che vuole offrirsi più come un dato di fatto che come una presa di posizione.

Se poi all’osservatore capita di emozionarsi di fronte a quella quotidianità talvolta disarmante, in cui le situazioni sembrano essere andate incontro al fotografo senza (quasi) che lui le abbia cercate, beh… se questo accade è “tutta colpa” dell’osservatore.

Mi spiego: una fotografia è uno specchio; questo è risaputo. Un luogo cioè in cui le persone possono vedere solo ciò che conoscono già, di cui hanno esperienza. Non è infatti possibile, con una fotografia, far riemergere frammenti di consapevolezza e conoscenza che non abbiamo. Per questo, una bella immagine è in grado di dipingere sentimenti con sfumature innumerevoli negli occhi di osservatori diversi.

Ora, seguendo questo pensiero, Michele, come ogni fotografo, cosa porge ai suoi osservatori non lo può sapere fino in fondo.

È come se delle sue immagini lui facesse piccole barchette di carta sensibile e le lasciasse andare nel corso calmo di un bel fiume. Chi le incontrerà?! Se i fortunati fossimo noi, sappiamo che il suo regalarci pezzetti di mondo è un gesto che egli accompagna con umiltà, aprendosi all’osservatore e chiedendo una condivisione di stupore e di emozione      -qualsiasi essa sia – scaturita dall’incontro con la realtà.

L’unicità dello scatto è un aspetto importante per Michele, ed è questo un punto fermo della sua arte, che lo sostiene nel percorso conoscitivo bressoniano del mondo.

 

Una realtà che egli auspica di cogliere nel suo pieno grado di sviluppo e che, malgrado questo, non protende per forza verso la sorpresa bensì verso qualcosa di molto più avvincente: il racconto dello straordinario quotidiano. Quella cosa che abbiamo smesso di guardare – dicono – e a cui diamo poca importanza perché presi da ciò che verrà più che da ciò che ci sta accadendo. Un universo di gesti e situazioni che riempiono la vita di tutti i giorni ad ognuno di noi.

D’altronde è questo che sanno fare certi fotografi meglio di altri: darci un’altra possibilità (e un’altra, e un’altra ancora) per farci vivere le mille sfaccettature del reale.

Simona Guerra

 

Entelechia dell’invisibile, il racconto della vita nelle foto di Michele Di Giacomo è compiuto attraverso fessure e interstizi virtuali aperti su un quotidiano che, visto con gli occhi dell’autore, appare costellato di momenti unici e irripetibili. Michele mette sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi, il cuore e la poetica bressoniana per fare foto che con HCB s’apparentano talvolta solo alla lontana.

L’incipit, per esempio, è francamente Giacomelliano, e più avanti si intravvedono altri richiami, da Doisneau a Sellerio, come dire tutta la lezione dei grandi fotografi flâneurs del secolo scorso, che è poi la lezione della narrazione fulminea, fatta con la luce e ancor più con l’ombra, di quel che si vede ma anche di quel che non c’è più o non c’è ancora, un prima e un dopo che la fotografia forse non è in grado di svelare ma può certamente evocare.

C’è una via Di Giacomiana all’invisibile?

Di certo c’è che ogni sua immagine è un racconto denso, una sceneggiatura estemporanea ma completa, ottenuta sempre con pochi essenziali elementi.
Sfogliare questo libro è leggere il diario di bordo di una nave, in cui Cartier Bresson è arruolato come ufficiale di rotta ma il cui timone è saldamente nelle mani di Michele Di Giacomo, un autore a cui auguriamo lunghi e avventurosi viaggi in quegli oceani di reale-immaginario in cui egli sembra navigare con naturale destrezza.

Carlo Riggi

Quando coniò l’espressione “momento decisivo” Henri Cartier Bresson non deve essersi reso conto della trappola che tendeva a quanti lo avrebbero eletto a loro ispiratore: non si contano le immagini ritenute in buona fede “bressoniane” solo perché fermano nel tempo il culmine di un’azione, per quanto priva di significato essa possa essere.

Non così nella fotografia di Michele di Giacomo, che si accosta al grande maestro con la necessaria umiltà ma anche con l’impegno a cogliere momenti di vita che non lasciano indifferenti, inquadrati in composizioni pulite e precise che ne esaltano l’essenza.

Questa raccolta ne è la tangibile testimonianza.

Lasciamo che le sue foto parlino da sole.

Romano Sansone